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Linee sulfuree: la sapienza dello spazio nelle immagini di Patricia Gil
Autore: Fulvio Lo Cicero
- Pubblicato il 31/03/10 - Categoria
Cultura Fotografica
Patricia Gil, giovane fotografa spagnola, dedica il suo "occhio" fotografico soprattutto al paesaggio. La sua cultura visiva, che ricorda Gianni Berengo Gardin, è sicuramente una delle più interessanti di questi ultimi anni.
La cifra espressiva di questa artista sta tutta nella composizione grafica delle sue immagini, la maggior parte delle quali in bianco e nero e nella capacità di concepire lo spazio come una sorgente di suggestioni interiori. Facendo propria la lezione di Cézanne, secondo la quale è sempre necessario cercare la “struttura delle cose”, cioè, scrive Herbert Read, «uno stile radicato nella natura delle cose e non nelle sensazioni oggettive», Patricia va alla ricerca dei fondamenti della vita naturale, così come la percepisce in paesaggi che sono principalmente interiori, ricreati dalla luce e dalle sfumature del bianco e nero.
Le numerose riprese dall’alto e l’uso di obiettivi grandangolari non spinti, disegnano linee geometriche nelle quali spesso appaiono uomini che sembrano miniature, immersi come in un vuoto pneumatico, cui fa da riscontro la piccola ombra proiettata di fronte al corpo.
Paesaggi urbani o agresti si susseguono, perché Patricia non pone una differenza in termini di attività produttive ma di spazio: ciò che le interessa è la sorgente delle suggestioni da cui lo spazio trae origine, che può essere ora una serie di alberi invernali di fronte ad una strada di campagna, ora altri alberi contornati da gruppi di persone su un fondo reso giallo, ovvero un altro albero solitario che sembra osservare una formazione nuvolosa che scende sopra l’orizzonte.
Le persone – dotate dei loro diritti individuali e inserite in una complessa organizzazione collettiva – sono quasi sempre viste come piccoli soggetti quasi schiacciati dalla natura. Ma quest’ultima non appare come una matrigna pericolosa ed incombente, bensì come una sorta di canapa avvolgente, dai tratti delicati. La concezione della natura in Patricia è materna: lo spazio appare quasi sempre come un vuoto piuttosto che come un’assenza, cioè una serie di linee e curve che si possono concepire e occupare, disegnare, riprodurre. La superficiale freddezza delle immagini di Patricia si trasforma, ad un’osservazione rigorosa, in calda intromissione in un ambiente ampiamente soggetto alla discrezionalità umana e alla intelligenza degli esseri viventi.
Quando la fotografa fa ricorso al colore, si tratta sempre di una dominante cromatica intensa, giallo, ocra, verde pastello. Almeno nei paesaggi, il bianco e nero, secondo Patricia, può trasformarsi solamente in dominanti cromatiche, senza mezzi toni. È un modo trasgressivo di concepire lo spazio, già ampiamente presente nella pop-art e nel surrealismo, ma dimostra come la ricerca fotografica – essendo, al pari della pittura, una ricerca “pura” sulla luce – non possa prescindere dalla riflessione sul mezzo e sulla sua capacità di riproduzione e di artificio.
Ci sono fotografi che concepiscono lo spazio dominato dalle curve, ma Patricia lo vede come un inseguirsi di linee infinite ed anche questo appare significativo di un modo di interpretare la realtà vivente come via di fuga, presenza di vita che sembra però fuggire verso un destino ignoto. Ed è questo, probabilmente, l’aspetto più inquietante delle immagini di questa fotografa spagnola: la presenza di aree di cui non si comprendono i limiti, come una prigione infinita senza sbarre oltre l’orizzonte.
(Per vedere le immagini di Patricia Gil: http://patriciagil.daportfolio.com/)