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Through the hole
Autore: oriella montin - Pubblicato il 20/04/10 - Categoria Mostre
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"Through the hole"  

Dal buco di una serratura spiamo una giacca, un pantalone, una camicia bianca, le scarpe che evocano una presenza maschile come bersaglio–icona di un assenza enigmatica. Montin pittrice, in bilico tra il linguaggio fotografico e una dichiarata passione per il cinema mette a fuoco un corpo rivestito di simboli annodato nelle ambientazioni déjà-vu come una riflessione sull’ immagine medium autoreferenziale fedele al più rigoroso ed oggettivo irrealismo. Nel labirinto segnico del linguaggio dell’abito, nella psicologia del vestito, l’uniforme borghese è il simbolo della forza virile, ma qui l’effetto decontestualizzato è un ready-made di un uomo, di un padre mai conosciuto, sognato, anatomizzato da una ipotetica lei vittima e carnefice delle sue stesse paure, ossessioni, proiezioni?

Oriella Montin lavora sull’immagine pittorica e fotografica in maniera simultanea e in questa serie riflette sugli enigmi dei simboli dell’abito maschile “portato addosso” come sigillo di una virilità dai mille volti creando atmosfere suspence, effetto cinema. Ciò conferisce al suo lavoro la forma di una riflessione metalinguistica, in cui le immagini e gli oggetti definiscono un set fotografico che presenta l’anatomia dell’uomo attraverso l’immagine degli oggetti che lo rappresentano, bersaglio immobile e vessillo dell’ambiguità di un ruolo indefinibile nella teatralizzazione dei suoi feticci. Queste originalissime “ Tales from Freud e Barthes” antropomorfizzano la giacca, il pantalone, la camicia, le scarpe, il coltello e la veste bianca magrittiana appesa alla parete, come contenitori d’identità possibili con immagini che diventano corpo sociale e luogo del reato, dell’omicidio della realtà.

Le fotografie realizzate con una semplicissima Canon completamente manuale e un obiettivo di 75 mm, al quale l’autrice ha sovrapposto un filtro nero per creare l’effetto “occhio di bue” rappresentano uno psico-dramma surreale, una messa in scena di “ the psychology of man” di eco kafkiana e pirandelliana in cui nulla è ciò che sembra, ma è vero tutto ciò che si immagina.  Questi oggetti – soggetti fotografati non sono altro che una traccia, il segno dell’immagine e di una irrealtà che agisce sul nostro sguardo, agisce la complicità silenziosa tra l’oggetto e l’obiettivo. Le sue immagini sono un dichiarato omaggio al cinema muto e configurano il nostro desiderio di spiare le cose dissolte nel fascino delle immagini sullo schermo, ammantate dall’illusione della realtà. Si tratta di oggetti simulacri del reale, qui trasformati in attori e bersagli dell’enigma. Spiamo il desiderio di guardare sagome fittizie da un buco? Al bersaglio mettiamo il desiderio di vedere una possibile realizzazione del sogno? Attraverso le immagini manteniamo le distanze e non relazioniamo se non spot, flash della memoria? L’autrice ci invita a riflettere sulla barriera dell’apparenza, sulla solitudine e la mancanza di relazione tra i sessi, mettendo a fuoco il ruolo vacante di un uomo fantasma visto da una donna invisibile. Questa sua personale ossessione è da mettere in relazione ai risvolti psicoanalitici con l’abito, con la persona-maschera, con l’apparenza delle cose e risente della poetica surrealista, in cui qualsiasi messa in scena assume un carattere visionario, estetico, onirico. Montin non travisa la realtà ma ne coglie gli aspetti simbolici, utilizzandoli come presupposti di fascinazione deduttiva e raffinata, mettendo a fuoco la simulazione delle forme e di un corpo attraverso l’abito personalizzato dalla sua assenza. Per Dalì gli abiti rappresentavano la duplicazione dell’Io, con i suoi desideri e i suoi sogni, per Montin la solitudine degli oggetti fotografati è correlativa al suo stato d’animo e al suo carattere introverso, intimista, in cui tutto si definisce in una superficie dell’apparenza, amplificando sensi e riflessioni sull’enigma della rappresentazione. Il suo obiettivo voyeurista si focalizza sulla vertigine del dettaglio contenuto nell’oggetto simbolico, mettendo al centro della visione l’eccentricità magica del particolare nell’assenza del soggetto. L’oggetto deve essere fissato, guardato, spiato e immobilizzato dal nostro sguardo in attesa di cogliere “altro”, in una sorta di empirismo dell’evidenza che non tocca mai la verità. Si tratta di un iperrealismo dell’inganno fotografico che l’immagine contiene, come rappresentazione di un apparente realtà, senza definire quale. Dietro questa immobilità permanente, nell’istantaneità fotografica circola l’enigma senza mai svelarlo, salvaguardando l’aura dell’illusione contenuta nelle sue immagini con un obiettivo che esplora l’assenza, il silenzio, l’isolamento, e caricando questo spazio filmico di emozioni, di attese e di una complicità tra noi e il mondo attraverso uno sguardo metafisico delle cose liberate dalla psicologia e dall’introspezione, qui decontestualizzate come schemi della volontà di rappresentazione. E nel silenzio l’io esiste, interrogandosi sul significato delle cose e nel dubbio di abiti –maschere, l’uomo diventa bersaglio di forze misteriose che noi spiamo con sguardi desiderosi di uno spazio magico, attraverso un buco immaginario.

Testo critico di Jacqueline Ceresoli realizzato in occasione della mostra bi-personale "Due racconti di Oriella Montin e Manusch Badaracco" presso l'Associazione Culturale Renzo Cortina Milano nel maggio 2008. 

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