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Il Prof. Stefano Ferrari, docente di psicologia dell’arte presso l’Università di Bologna, ha scritto diversi saggi sull’argomento ponendosi una domanda di base:
“Che cosa caratterizza l’autoritratto – non solo quello fotografico – da un punto di vista psicologico?”
Secondo quanto afferma il Professore, il profilo psicologico che caratterizza un autoritratto riguarda il rapporto dell’uomo con la propria immagine (vedi per esempio il mito di Narciso), con la formazione e il sentimento della sua identità. E aggiunge inoltre una possibile ulteriore componente in quanto l’autoritratto può anche essere visto come meccanismo di riparazione.
In questo senso, infatti, sviluppa la propria teoria e allestisce teatrali sessioni di scatto la fotografa Cristina Nuñez, la quale vede in questo genere fotografico non solo un metodo di auto interrogazione, autoanalisi e auto riflessione, ma anche una maniera per migliorarsi e stare meglio con se stessi prima di tutto e poi con gli altri.
Jacques Lacan, noto psicologo e filosofo francese, afferma che lo scatto costituisce l’equivalente con cui il fotografo realizza e cattura la propria identità. In sostanza, secondo Lacan, è proprio attraverso la pratica dell’autoscatto che un fotografo può giungere alla consapevolezza della propria identità.
E in questo contesto nasce anche la mia opera Self Portraits – Conversazione con me stessa del 2005.
L’autoritratto rappresenta per me il sostitutivo di un’esperienza allo specchio, è un gesto che mi porta fuori da me stessa, come dire “Esco a fare due passi”.
Durante l’autoritratto ci è concesso vivere un’esperienza fotografica completa, sia pratica che intellettiva, durante la quale riusciamo a vivere e percepire in maniera acuta un frammento di noi stessi, usciamo da noi stessi, ci vediamo dall’esterno, ci riguardiamo, ci scrutiamo allo scopo di riconoscerci o meno nello scatto eseguito. Questa pratica necessità essenzialmente di molta sincerità da parte del fotografo sia in fase di scatto che in fase di “rivalutazione critica” dell’immagine nel suo insieme. Dobbiamo avere infatti un marcato senso critico-analitico nei confronti di noi stessi, se vogliamo raggiungere un risultato di valore. Di per sé è un’esperienza interiore che poi si autodefinisce nella seconda fase, quella esterna del rivedersi e ri-viversi, in forma di primo spettatore che fruisce la foto appena scattata (grazie alla tecnologia digitale infatti siamo in grado di scattare e rivederci immediatamente concludendo l’esperienza dell’autoritratto anche come fruitori).
Il metodo potrebbe essere messo a confronto con il metodo auto critico di Dalì, ma senza l’utilizzo di sostanze stupefacenti: solo e soltanto concentrazione. Una sorta di performance artistica vissuta sia a livello fisico che mentale con un chiaro impatto emotivo. Se privato di spessore intellettivo ed emotivo l’autoritratto non si definisce in chiave creativa e non supera la soglia dell’estetica: se ci poniamo dinnanzi alla macchina fotografica in posa, per esempio il classico e ormai più che banale primo piano con l’apparecchio fotografico davanti alla faccia oppure la formale posa in tre quarti con le braccia conserte, o ancora la posa “più riflessiva” con la mano sotto al mento per mostrare che siamo in grado di pensare, restiamo agganciati al pensiero di ciò che gli altri pensano di noi senza esprimere ciò che in realtà noi pensiamo di noi stessi. In questa maniera si resta incastrati nel meccanismo superficiale dell’autoritratto fatto solo per mostrarsi agli altri. Non è questo il caso di cui si discute in queste righe: abbiamo la pretesa infatti di andare ben oltre questa semplice e banale esperienza meramente estetica.
Ciò che si vuole intendere in questo breve saggio è che l’esperienza dell’autoritratto può identificarsi con la performance artistica in quanto le tre componenti fondamentali – autore, soggetto e spettatore – interagiscono tra loro, in certi casi, creativamente per mezzo di una forte componente espressiva.
Autore → esterno → dall’esterno verso l’interno
Soggetto →interno → esperienza in sé
Spettatore → esterno → dall’interno verso l’esterno
È come partire da un impressionismo, passare attraverso l’espressionismo e infine superarlo a favore di una auto affermazione e auto identificazione.
Infine, il Prof. Ferrari parla di una fase intrinseca di sdoppiamento, meglio se controllato. Per questo motivo l’esperienza dell’autoritratto deve essere vissuta in completa coscienza di se stessi, affinché tutto sia il più reale possibile e ben percepito. Un errore durante lo spostamento – scrive Stefano Ferrari – può causare contraccolpi all’Io e si rischia di restare divisi, molteplici, bloccati e l’autoritratto non avviene. Il nostro Io deve essere in grado di sopportare e tollerare lo sdoppiamento che avviene nel momento in cui da autore ci spostiamo davanti all’apparecchio fotografico e quindi ci sdoppiamo in soggetto da fotografare. Lo sdoppiamento nella pratica fotografica dell’autoritratto avviene per forza e per ragioni tecniche va affrontato con coscienza e rigore mentale, poiché inoltre dopo tale sdoppiamento, il ritorno al nostro Io deve essere sostenuto chiudendo l’esperienza con la fase finale in veste di spettatore.
E può essere inteso come processo creativo, se l’autoritratto è pensato, ideato, organizzato presupponendo una scelta, un’elaborazione, una selezione tra tanti autoritratti allo scopo di trovarne uno, quello “giusto” e più rappresentativo di noi stessi sia da un punto di vista psicologico che tecnico.
L’efficacia terapeutica in direzione espressiva non può essere negata, ma lo spessore artistico può essere, in molti casi, messo in discussione.
Valentina Cusano